Due di voi: il veganismo che ci meritiamo

L’indifferenza a volte può rivelarsi uno strumento molto efficace per non dare adito a sterili polemiche o visibilità a personaggi che contribuiscono a sostenere e diffondere concetti la cui essenza è stata espropriata da tempo, svuotandoli di ogni significato e scopo originale, ma non è questo il caso.
La questione che vogliamo affrontare va discussa e denunciata perché utile a comprendere il precipizio nel quale il veganismo è caduto ormai da tempo, smarrito in quell’oceano di ricette, prodotti industriali, certificazioni, approcci salutistici o proposto in modalità “prova” come se si trattasse di un’automobile da restituire nel caso non si fosse soddisfatti della scelta fatta.
Tutti aspetti che, oltre a permettere la mercificazione degli ideali di liberazione, hanno portato alla creazione di personaggi la cui esistenza potrebbe tranquillamente passare inosservata, se non fosse per il seguito di discepoli che offrono loro visibilità, consegnandogli quella figura di testimonial di un veganismo che ormai è solo una parola vuota.

Per quanto voi vi crediate assolti siete pur sempre coinvolti (De Andrè)

Perché se vi domandate come tutto questo possa esser stato possibile e se volete individuare dei/delle colpevoli, non dobbiamo fare altro che guardarci tutti/e allo specchio.
Lo scopo ultimo del veganismo è ormai stato dimenticato, scansato da esultanze prive di significato per un prodotto vegan nei templi della grande distribuzione organizzata, per surrogati vegetali che ricordano quei prodotti frutto della schiavitù e dello sfruttamento animale, per la notizia di gabbie più grandi all’interno dei centri di detenzione dove gli animali continuano ad essere giustiziati a milioni ogni giorno.
Il punto di rottura è stato superato ormai da tempo, e ha condotto alla costituzione di due “movimenti” paralleli, dove da un lato c’è chi punta alla popolarità e scende a compromessi col sistema al fine di non perdere visibilità, e dall’altro c’è chi lotta per il cambiamento, sporcandosi realmente le mani senza curarsi delle conseguenze o di perdere seguito pur di raggiungere l’obiettivo più importante: la liberazione totale!
A tal proposito riportiamo la riflessione fatta da Ada Carcione in relazione alla questione “Innocenzi/Vissani” che, a nostro avviso, inquadra e sintetizza perfettamente la realtà nella quale stiamo facendo sprofondare il veganismo, sempre che non ci si svegli in tempo.

Mi vergogno quasi a dire di che cosa sto parlando, ma tant’è. Argomento del contendere è la foto che ritrae Giulia Innocenzi con lo chef Vissani e che è stata accompagnata, sul profilo della stessa Innocenzi, dalla frase “Vissani uno di noi”, o qualcosa del genere.
Premetto che non ho avuto modo di vedere il post originale né di seguire le polemiche per benino; perché non seguo né conosco la Innocenzi, ma ho letto nei toni di chi mi ha chiesto cosa ne pensassi un’acredine che ritengo ingiustificata.
Orbene, benedetto il cielo, chi è sta Innocenzi lo so, ma cosa rappresenti per voi non riesco proprio a capirlo.
Perché vi sentite delusi? Perché vi sentite traditi? Perché tutto questo desiderio di dissociarsi da lei e dal suo agire?
Qua sta il nodo.
Voi siete delusi, vi sentite traditi, vi siete premurati a dissociarvi e questo dipende dal fatto che ritenete la Innocenzi in qualche modo rappresentativa di un insieme e, cosa non meno importante, di quell’insieme voi ritenete di far parte.
Ma cosa vi aspettavate succedesse? Chi pensavate potesse rappresentare e come questo nulla assoluto che è oggi diventato il cosiddetto “veganismo”?
Su quale livello credevate potesse svolgersi un dibattito che più che a suon di ricette e vendita di prodotti non viene portato avanti da nessuno?
“La Innocenzi non è una di noi”, ho letto. E giù di proprietà transitiva per cui “Vissani non è uno di noi”.
Beh.
Io credo invece che lo siano entrambi, “due di voi”.
Sono entrambi volti perfetti, e insieme più che mai, per rappresentare il punto a cui è giunto il veganismo.
Questo veganismo non è un insieme nel quale mi riconosco e ritengo fenomeni del genere (non dico polemiche perché al termine polemica io conferisco accezione positiva) del tutto risibili e inutili ma soprattutto sintomatici del livello mediocre ormai raggiunto dai “vegani” italiani.
Con questo chiudo la questione ritenendo di non dover rispondere a nessuna sollecitazione ulteriore e soprattutto convenendo con chi ha affermato che i toni utilizzati da molti “vegani” nei confronti della Innocenzi siano stati esagerati e del tutto fuori luogo.
Se lei è dov’è, se può parlare e scrivere di certi argomenti, se può essere ospite di trasmissioni tv e simili come portavoce dell’insieme in questione, è solo e unicamente perché è stata sostenuta e sospinta dal nulla assoluto che è diventato il veganismo e dal fatto che -consapevolmente o meno- il più dei vegani italiani, in questo momento, alimenta questo tenore e questo livello di dibattito.
Mi spiace che le vostre energie siano ad oggi impiegate in questa direzione ostinatamente inconcludente alla quale – a 360 gradi – ritengo di non voler contribuire.

Agganciati al sistema antropocentrico

Definizione di gancio usato in macelleria.

Gancio da macellaio (ganci carne plurale): un gancio su due lati normalmente utilizzato in macellerie per riagganciare la carne o le carcasse di animali come i maiali.

O più genericamente.

Strumento a forma di uncino, utile per appendere o trainare qualcosa.

Cosa vi ricorda questa foto?vegandel3

No, non si tratta dell’interno di un salumificio o di una macelleria, ma di uno degli stand allestiti all’interno della scorsa edizione del SANA di Bologna, nell’ambito dei padiglioni dedicati a VeganOk.
In questa occasione è stata presentata una nuova linea di surrogati vegetali che però ricordano molto bene alcuni prodotti di origine animale, esposti, tra l’altro, in bella vista attraverso l’utilizzo di quegli stessi strumenti simbolo dell’industria della carne e dello sfruttamento che essa rappresenta.
Una moda, questa, perché solo così può essere definita, che si sta diffondendo rapidamente figlia di quell’approccio consumista che trasforma ogni cosa in business, anche quella che dovrebbe essere identificata (il condizionale è d’obbligo) come la forma più pura e diretta di lotta al capitalismo, da cui ha origine la cultura del dominio da parte dell’uomo di tutto il resto.
Una tendenza che mantiene viva l’immagine di quel sistema violento votato a l’assoggettamento di chi viene considerato inferiore e quindi sacrificabile per ragioni di lucro, prima, e di gola poi.
Un fenomeno alimentato da quell’errata concezione del veganismo che porta molti/e a rassicurare il prossimo garantendogli/le di poter avere ugualmente accesso ad un’alimentazione gustosa e a una buona varietà di prodotti industriali pur di farlo/a diventare vegan,
riducendo il tutto ad una mera scelta nutrizionale o di moda.
Essere vegani/e e mangiare vegano potrebbero sembrare la stessa cosa, sopratutto agli occhi di chi magari sta muovendo i primi passi verso il veganismo, ma in realtà esiste una differenza abissale tra i due aspetti ed è proprio in questo punto che si inseriscono quelle forme di consumismo che tendono ad appiattire ciò che, di fatto, dovrebbe rappresentare il primo passo verso il percorso antispecista.
Il veganismo, infatti, non è il punto d’arrivo, ma semmai di partenza verso un percorso ben più amplio che non si deve esaurire con il rifiuto a consumare e indossare prodotti di origine animale, o la cui realizzazione ha provocato una qualche forma di sfruttamento degli stessi, ma deve rappresentare la forma più diretta e radicale di opposizione a quel sistema antropocentrico sul quale poggia la società attuale.
La necessità, e quindi garanzia, di poter reperire sul mercato prodotti industriali vegan in generale, ma soprattutto quelli che ricordano direttamente ciò che appartiene ad una tradizione basata sullo sfruttamento animale, è un modo per rimanere legati al passato, ad una visione di società incentrata su sofferenza e prevaricazione, a quello stesso sistema dal quale si dovrebbero prendere le distanze e al quale invece si rimane morbosamente ancorati per ragioni di comodità.
Ganci da macelleria sui quali vengono appesi surrogati vegetali che ricordano mortadelle, salami e salamini non possono e non devono rappresentare l’immagine del veganismo, un termine che non dovrebbe neanche essere associato a ciò che non ha nulla a che fare con la lotta per la liberazione animale, ma che rappresenta solo un’altra espressione dell’industria e del consumismo.
Reparti vegan all’interno dei templi della Grande Distribuzione Organizzata, prodotti industriali che ricordano quelli ottenuti dalla prevaricazione animale, altri di origine vegetale confezionati in diversi involucri di carta e, sopratutto, plastica, materiale che sta avvelenando i mari segnando la morte di numerose specie ittiche, non rappresentano il cambiamento tanto auspicato, ma solo un’altra forma di strumentalizzazione da parte dell’industria.
Assecondare questi fenomeni non significare essere vegan né attivisti/e, ma solo altri/e consumatori e consumatrici, schivi/e e complici di quello stesso sistema che si pensa di combattere.